La paura di diventare genitori
Ma "guscio vuoto" lo si diventa o diventare genitori rivela ciò che è stato?
Buon pomeriggio,
Come va da quelle parti?
La lettera di oggi ha solleticato una delle mie fisse: non la questione figli, ma il diventare grandi senza ingrigirsi. Ci hanno raccontato che crescere significhi spegnersi un po’. Che diventare adulti voglia dire smettere di ridere forte, abbandonare i sogni, vestirsi di colori neutri e smettere di ballare in cucina.
E diventare genitori? Peggio: un’immagine fatta di occhiaie, sacrifici, noia e una voce sempre un po’ stanca
Io, a questa idea, mi sono sempre ribellata, ma proprio che mi va stretta e ho voglia di urlare (io, che di urlare non se ne parla manco al parto! 😂).
Eppure crescendo ho cominciato a vedere persone ingrigirsi davvero. Una dopo l’altra, come su un ottovolante: navicella dopo navicella, cadevano giù.
Le guardo e mi chiedo: “Ma cosa è successo? Eravate così anche prima? Quando è successo?”
Erano persone piene di vita, prima. E ora sembravano muoversi per inerzia, come se crescere fosse una perdita inevitabile di sé.
Ma io credo che si possa diventare adulti – e anche genitori, se si vuole – senza rinunciare al proprio colore. Che si possa attraversare la responsabilità senza spegnersi, rimanendo vivi, autentici, pieni. Che si possa tenere insieme la responsabilità e il gioco, la cura per l’Altro e quella per sé, il sonno interrotto e le risate a tavola. E mi sono detta che forse è proprio lì, in quel colore che resta, che si misura la possibilità di diventare grandi senza perdere se stessi.
Fammi sapere cosa ne pensi, se anche per te è un tema caldo. Per me lo è, è una battaglia colorata. Forse è proprio per questo che sopra al divano della mia stanza di terapia si erge speranzosa la scritta: “Insieme. Ridendo. Spettinati”. Me la tatuerei, la tatuerei al mondo.
Ciao Alessia,
Ti seguo silenziosamente da parecchio tempo e mi piacerebbe chiederti di spendere qualche parola, se puoi, sulla paura di diventare genitori.
Ho 35 anni e fin da ragazzina (11-12 anni, credo) sono sempre stata terrorizzata dalla maternità nei suoi aspetti fisici. Con gli anni questa paura si è estesa a tutto ciò che avere dei figli piccoli comporta in termini di accudimento e perdita di sé: la mia percezione, sicuramente esagerata, è che per una donna avere dei figli equivalga a fare una violenza e quasi una menomazione permanente al proprio corpo, perdendo autonomia e diventando “debole” agli occhi degli altri, e perdere se stessa, non avendo più tempo per necessità basilari come dormire e tantomeno energie mentali per pensare a qualcosa che non siano figli, lavoro e casa. Anche se so che è un’esagerazione, mi sento proprio come se fare un figlio significasse che la mia vita finisce lì, lasciando solo un guscio vuoto che sopravvive per puro dovere verso gli altri.
Spesso penso di essere semplicemente egoista e narcisista (fragile) e che non sarei mai una mamma decente.
Mio marito desidera tanto un bambino e io non me la sento di negargli qualcosa di così fondamentale nella vita di una persona, anche perché in fin dei conti anche a me piacerebbe trovare la forza di provare a fare una famiglia. Vado in terapia da più di un anno per affrontare questo problema, ma non mi sembra di vedere miglioramenti significativi. Ho paura sia che i figli vengano, sia che non vengano. Ho paura di essere troppo immatura, ma anche di essere troppo vecchia. Non so come uscirne, è un impasse logico ed emotivo.
Cosa si può fare per sbloccarsi in una situazione di questo tipo?
Ti ringrazio per aver letto fin qui e per tutto il lavoro che fai.
Buona giornata!
Cara F.,
intanto grazie per aver condiviso qualcosa di così profondo e delicato. Ci vuole molta onestà per mettere in parole paure che spesso restano sommerse, perché socialmente non è semplice dire “ho paura di avere figli” o “mi sento inadeguata anche solo a pensarci”.
In realtà, una cosa che mi ritrovo a ripetere spesso è che si fa più domande chi i figli decide di non averli, rispetto a chi li fa (poi, certo, dipende dai casi…non possiamo generalizzare) e trovo sia un problema, perché spesso si arriva ad avere figli più sulla scia di spinte sociali, fantasie edulcorate, forme di rivalsa (“Adesso che sono incinta/madre, non potete più…”, “Adesso che sono incinta/madre, il mondo mi deve…”) e con uno sguardo poco capace di guardare cosa significhi essere davvero un genitore, capace di guardare i bisogni del bambino in arrivo, oltre ai propri. Spesso è un gran patatrac. Chi si è posto la maternità come obiettivo principale e ultimo della vita ha -molto spesso- una vita che finisce lì, perché l’obiettivo era procreare, più che vivere. Mentre ai figli serve vita, vitalità, la nostra. Chi ha sufficiente consapevolezza, al contrario, se la gode abbastanza perché, pur con tutte le difficoltà che la genitorialità porta con sé, assapora il gusto di scoprire che c’è anche molto da divertirsi.
Apprezzo, quindi, molto chi si pone il dubbio. Certo, spesso cela delle tematiche personali- e ora le esploriamo insieme- ma lo trovo anche molto maturo.
Le immagini che usi – il corpo violato, il guscio vuoto, la perdita di sé – raccontano di un conflitto molto intenso. Mi colpisce il fatto che la tua paura non si limiti al momento fisico del parto e della prima maternità, ma si estenda al tempo, all’identità, all’autonomia. Ti chiedo: da dove viene questa narrazione? A quando risale la prima volta in cui hai associato la maternità alla perdita di te? Chi o cosa ha contribuito a costruire quest’idea?
Per provare a rispondere a queste domande, puoi osservare i modelli di genitorialità che hai avuto. Partirei dalla tua famiglia, estendendo lo sguardo alla famiglia allargata e alle amicizie: come sono le persone che diventano genitori? Come le hai vissute con gli occhi di bambini e di ragazza? Non partire con lo sguardo di chi deve dare un giudizio, prova semplicemente a osservare.
E ancora: quanto spazio hai avuto tu, nella tua vita, per essere “tu”, per scegliere, per affermare i tuoi desideri senza doverti adeguare a un modello di dovere, di sacrificio?
Se dovessi azzardare a dire quale sia il focus della tua lettera, poggerei le mie fiches sulla frase: “…lasciando solo un guscio vuoto che sopravvive per puro dovere verso gli altri”. Prova a rileggerla. Che emozioni suscita in te? Cosa senti nel corpo? E, lasciando fluire il pensiero, che immagini di vita si aprono nella tua mente? Dove corrono i ricordi?
Mi capita spesso di lavorare, in terapia, con persone che faticano a prendere in mano la possibilità di diventare genitore, perché si sono sacrificate già molto, sono già state in quel ruolo quando non dovevano esserlo (da bambine). In questi casi l’idea della genitorialità ricade sulle spalle come un grande: “Ti devi mettere di nuovo da parte”. “…lasciando solo un guscio vuoto che sopravvive per puro dovere verso gli altri”. È una frase potentissima. Mi fa venire in mente molte cose insieme:
– Un’identità svuotata, come se tutto ciò che si era (desideri, passioni, libertà) fosse stato sacrificato sull’altare di un ruolo.
– Una forma che resta senza contenuto, una persona che continua a funzionare, ma senza esserci davvero.
– Un automatismo pieno di fatica, come se vivere fosse diventato solo un atto di obbedienza, senza piacere, senza scelta.
– Un senso di alienazione profonda, perché quel “guscio” parla di qualcosa che continua a esserci per gli altri, ma non più per sé.
– Un’immagine da burnout affettivo, come se amare (o prendersi cura) fosse un lavoro estenuante e senza ritorno, che consuma fino a esaurire.
Ma questo non accade diventando genitori. Questo è accaduto prima, immagino, e il diventare genitori rischia semplicemente di svelarlo, di porsi come un punto di non ritorno (parere mio? Non è per forza così. Si può “usare” il ruolo i genitori per scoprire come divertirsi, come sporcarsi senza arrabbiarsi, come colorare andando fuori dai contorni, come guardare le cose con nuovi occhi…).
In alcuni passaggi ti definisci egoista, narcisista, immatura. Ma se guardiamo bene, dietro questi aggettivi severi c’è una persona che sta cercando di non fare e farsi del male, che ha paura di annullarsi, che vorrebbe trovare una strada per proteggersi senza rinunciare alla possibilità di amare. E se la tua paura non fosse un difetto, ma una bussola che sta cercando di mostrarti di cosa hai bisogno per non perderti?
Dici che anche tu vorresti “trovare la forza di provare a fare una famiglia”. Mi viene da chiederti: che cos’è, per te, una famiglia? Quali forme potrebbe avere, quali confini, quali equilibri? E ancora: è possibile immaginare una maternità che non assomigli affatto a quella che temi, ma che si costruisca a partire da te, da ciò che sei oggi?
Che ruolo hanno i papà nelle famiglie che hai conosciuto? La genitorialità è una scelta condivisa? Si fa squadra o il carico è di uno soltanto?
Non so se ci siano “sblocchi” netti, ma a volte si fanno piccoli movimenti interni, quasi impercettibili, che però cambiano il nostro sguardo sulle cose. Ti capita mai di sentire uno spazio, anche piccolo, in cui immagini una maternità non come una rinuncia, ma come qualcosa che si affianchi a te, e non ti cancelli?
Ricorda sempre che ogni blocco è lo scontro tra due parti di sé: in questo caso, una desidera la maternità, mentre l’altra tira il freno a mano. Per sbloccarsi occorre far parlare le due parti: come immagina la maternità la prima parte? E la seconda, al contrario, cosa teme? Falle dialogare, hanno molto da dirsi. Dopodiché, in quel dialogo, prova a inserire tuo marito.
In ogni caso, hai già fatto qualcosa di molto importante: hai iniziato un lavoro su di te, stai ascoltando le tue paure invece di metterle a tacere. È da lì che può nascere una scelta consapevole, qualunque essa sia.
Un abbraccio, e aggiornami, se ti va!
P.s. Ho dato per scontato la questione per cui non è obbligatorio avere figli, dev’essere una libera scelta. Ma non mi sembrava il focus di questa lettera e quindi…sono stata su altro!
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E tu, caro lettore o cara lettrice, come vedi la genitorialità? Con quale modello di genitorialità sei cresciuta/o? Com’è cambiato nel tempo e come ha influenzato le tue scelte?
Come sempre, se ti va di condividere qualche riflessione, son qui!
GLI ULTIMI EPISODI DEL PODCAST "TV THERAPY"
Ve li linko qui sotto, così non dovete stressarvi a cercarli:
Speciale Q&A su Adolescence.
Cosa c’è sotto la rabbia maschile? Ce lo racconta Adolescence
Avete mai pensato perché certe scelte sembrano più difficili di altre?
Grey’s Anatomy ce lo racconta per bene.Se qualcuno guardasse il tuo profilo social, penderebbe di conoscerti davvero? Severance ci racconta quante versioni di noi esistono.
Ogni tanto i pazienti mi raccontano di trovarsi in un’impasse: lamentano di non avere tempo libero, ma quando lo hanno rimangono a girare su sé stessi, come fosse difficile trovare idee per impiegarlo. In tutta onestà, capita spesso anche a me.
Quando trovo un’idea carina in giro, la segno in una apposita nota dello smartphone, che è una sorta di lista delle cose che mi piacerebbe fare o che anelo a fare, nei periodi in cui mi sento piena. Ai pazienti, suggerisco di farlo anche fisicamente: un barattolo in cui inserire tutte le idee delle cose che vorrebbero fare e di estrarre un bigliettino ogni volta in cui ne hanno occasione.
Ecco, in questo spazio sottostante, raccolgo le idee di cose fatte, viste, ascoltate nel corso del mese ed eventualmente qualche appuntamento interessante per i mesi successivi. Se ti va, puoi pescare da qui per i tuoi piccoli grandi momenti di respiro.
📚 Anche questo mese ho letto principalmente cose relative al mio ambito di lavoro e seguito un altro paio di corsi che mi interessavano, sempre relativi al mio lavoro (paio noiosa, lo so 😂 ma alcuni temi psicologici sono proprio una passione e mi piace passare così il tempo libero).
I podcast sempre in ascolto: Globo (Eugenio Cau mi insegna a capire il mondo e io lo consiglio a chiunque: per quanto racconti cose terribili, è sempre tranquillizzante proprio perché permette di capire e di avere lungimiranza…poi la voce: uno Xanax vivente!), Orazio, Morning, Ci vuole una scienza, Rame, Ma perché? .
…e quelli spesso in ascolto: The essential, Stories, Qui si fa l’Italia, Start, Globally, Un pasto alla volta, Mitologia: le meravigliose storie del mondo
📺 Adolescence. Ci abbiamo fatto due lunghissssimi episodi del podcast, quindi vi rimando lì. Ma quello che mi ha stupito maggiormente è stato mio marito che, giunto alla fine del secondo episodio, ha affermato: “Io non penso di riuscire a finirla. Mi ha angosciato troppo, ho fatto gli incubi tutta la notte”. Mai capitata una cosa del genere…Sto riflettendo!
📺 Girls5Eva. Leggera e spassosa, ma ricca di spunti. Forse c’entra anche con la newsletter di oggi: un gruppo di popstar al femminile famoso negli anni ‘90 si riunisce cercando di poter dare nuove chance ai propri sogni. Questa volta si mescolano con le normali (e un po’ rocambolesche) faccende quotidiane.
📺 Love&Anarchy. Riprende un tema che vedo sempre più spesso nelle terapie: trovare, in una relazione parallela (extraconiugale), la parte di sé più vitale e briosa. Non saprei dire perché, ma la serie mi ha un po’ annoiata. Peccato!




Per info e iscrizioni:
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☎️ 375 550 4163 (anche WhatsApp)
E per questo mese è tutto. Ci risentiamo il 13 maggio con la prossima newsletter con non stressa!
Io di anni ne ho il doppo: 48. Anch'io, ai miei trenta, non volevo avere bambini e anch'io avevo un marito che mi aveva detto dal giorno uno che voleva avere figli. Quando è arrivato il momento di decidere se averli mi sono buttata senza tanto pensarci perché mi sembrava scontato che era il mio dovere compiere la parola che avevo dato a mio marito accettando di sposarlo e di fare una vita insieme. Con gli anni mi sono resa conto di due cose: in primo luogo, che non volevo avere figli perché effettivamente , per certi versi, avevo dovuto fare da madre ai miei genitori quando - essendo figlia unica - mi coinvolgevano nelle loro diattribe e lotte e, in secondo luogo, che a volte - non sempre - serve anche buttarsi senza pensarci troppo nelle scelte di vita. Alla fine, la mia esperienza di madre è stata diversa da quella che avevo avuto da figlia e ho potuto definirla io insieme a mio marito. Devo dire che da quando sono diventata madre (quindici anni fa) non mi sono svuotata, come temevo, ma mi sono arricchita, ma per arrivarci ho dovuto: (i) costruire comunità per non sentirmi sola e/o onnipotente durante le tappe di accudimento iniziali, (ii) capire che i figli non sono miei, cioè non sono le mie creature nel senso di averli io creato, ma che loro sono loro, (iii) non smettere di lavorare e di coltivare le mie passioni per non perdere il senso di me stessa. La maternità non mi definisce, è una cosa in più. Tutto quanto sopra non è stato né è facile, tutti i giorni si ripropongono i temi da vivere e da risolvere con una serie di allegrie, dubbi, frustrazioni e arrabiature, ma è parte della vita. Adesso che sono adolescenti, affronto cose diverse e cerco di imparare a camminare con loro, né davanti, né dietro. Super difficile, ma ne vale la pena.
Ciao Alessia, io ho solo 24 anni eppure mi ritrovo appieno nelle emozioni che ha scritto la ragazza nella lettera. Ci ho riflettuto e in effetti credo proprio, per quanto mi riguarda, che derivino dall’idea di genitorialitá trasmessami dai miei genitori. Capisco il dilemma, perché anche se io in questo momento non sono nelle condizioni di avere una famiglia, penso che un domani questi pensieri ci saranno comunque. Purtroppo credo anche che ultimamente, soprattutto da noi giovani, fare il genitore sia stato demonizzato, come appunto se significasse rinunciare a tante parti di sé! Siamo sempre più esposti anche sui social a luoghi comuni sulla genitorialitá, come se fosse un’esperienza universale e non come se ognuno di noi potesse viverla a suo modo. Ho anche riflettuto sul fatto che va benissimo porci queste domande, ma che forse è anche vero che se abbiamo di fianco la persona giusta con cui condividiamo dei principi morali e dei progetti, dovrebbe essere un pochino più semplice. Purtroppo tante donne, a parer mio, non trovano la persona giusta con cui fare un figlio, forse anche perché non è così facile trovarla..
grazie per lo spunto di riflessione