Buttarsi (nonostante) grazie alle insicurezze
Come possiamo fare delle scelte se abbiamo 10000 paure, paranoie e dubbi?
Buongiorno,
Come sta andando da quelle parti?
Qui si oscilla tra il desiderio di tranquillità e routine e il bisogno di scoprire cose nuove. Non che sia una novità, conoscendomi.
Da quando ho ripreso il lavoro, dopo l’estate, ho sentito fortissimo il bisogno di rispettare la regolarità che mi son data, mi pesano le settimane in cui sorgono impegni che la fanno saltare, imponendomi di lavorare quando dovrei staccare o di staccare quando avrei le sedute con i miei pazienti. Ho notato di percepire un peso anche se vedo persone che passano da un evento all’altro o che hanno giornate in cui non si fermano mai, sento la pesantezza addosso e mi domando: ma non hanno voglia di star tranquilli? Ma in effetti, a ciascuno i propri bisogni. Io ho voglia di regolarità, di spazi ben suddivisi, di tempi lenti. Mi sembra tutelino sia la vita privata sia il lavoro, perché quei limiti tutelano il tempo dedicato ad esso, come a garanzia del fatto che ci siano tutta la lucidità e le energie per viverlo con il solito (beneamato) entusiasmo. Al momento, mi pare funzioni bene.
Vorrei farti notare che stai scrivendo una newsletter a mezzanotte di Sabato sera…
Vero, lo ammetto. Ogni tanto i tempi stringono e…così è (se vi pare).
Ho passato l’ora precedente a cercare una nuova crema viso e nessuna mi dava soddisfazione -_- . A tal proposito…C’è poi una parte di me che ha voglia di scoprire cose nuove: luoghi, cose da studiare, avventure da ascoltare (lo si nota anche dalle serie/documentari che ho guardato in questo periodo, spesso orientati su campi di cui so poco, atte ad aprire lo sguardo su altri mondi). Mi pare che le due parti non si scontrino, ma abbiano anzi trovato un accordo, si siano suddivise gli spazi e si stiano dando una mano a vicenda: la parte che ha voglia di novità mi fa comprare libri e studiare cose nuove che vengono bene sul lavoro, la parte che ha bisogno di regolarità garantisce confini, tempi e spazi che garantiscano all’altra di godersi i momenti. Mi pare funzioni, appunto. Forse è vero che, sulla strada verso i 40 anni (quanto mi piace ‘sto numero, ho deciso che per i prossimi 3 anni avrò 40 anni!), si va verso la fase della stabilizzazione. Stabilizzazione non stagnante, generativa.
Prima di lasciarti alla lettera di oggi, ti lascio l’invito per incontrarci a Milano sabato 18.11
Ciao Alessia,
Sono una neo collega, ho fatto l’esame di stato l’anno scorso e sono al primo anno di specializzazione in psicoterapia. Iniziare a fare questo lavoro mi sembra difficile (parlo delle mie insicurezze, non del fatto di non trovare pazienti…quella è una paura secondaria). Mi è stato proposto di prendere uno studio in condivisione con una collega, ma ho paura a buttarmi, perché mi sembra di non essere capace a fare niente e ho paura di fare danni con i pazienti. Non mi sento pronta e non so se mi ci sentirò mai. Tu come hai fatto?
P., Una giovane collega che ti segue con affetto
Cara P.,
Mah, credo ci siamo passati quasi tutti da quella fase e con “tutti” non intendo solo chi fa il mio mestiere, ma più in generale chi esce dal mondo delle scuole e si affaccia al mondo del lavoro. Credo che parte della responsabilità sia da attribuire a un sistema scolastico (e universitario, nel nostro caso) che prepara molto alla teoria e poco alla pratica. Pare che il mondo scolastico e quello lavorativo non siano ancora ben collegati. Un’altra parte è legata a noi che, in quanto esseri umani, abbiamo una naturale (e sacrosanta) paura delle novità.
Ti dirò la verità: ho sempre guardato con sospetto i colleghi (e più in generale i neo-professionisti) che approcciano al lavoro con estrema sicurezza e disinvoltura. Ho sempre avuto l’impressione che sottovalutassero le naturali lacune - in termini di competenza ed esperienza- che si hanno quando ci si affaccia per la prima volta alla professione. Bada, cara P., che io sono una che si butta, eh? Non sono una di quelle che ha tergiversato non sentendosi mai abbastanza pronta. Mai pronta mi ci sono sentita a lungo, ma ho una propensione ad affrontare le cose “di pancia”, tale per cui io mi butto e man mano sistemo con la razionalità, con lo studio, chiedendo aiuto…
Così sono oggi e così è stato agli inizi della professione. E sai qual è la cosa che mi fa buttare? Il poter contare sulle mie insicurezze, oltre a una buona dose di fiducia in me stessa. So che i due concetti paiono in antitesi, ma li ho sempre trovati accomodati bene dentro di me: per fiducia non intendo tanto la fiducia nelle mie capacità, quanto nella possibilità di mettere insieme le risorse (mie interiori o esterne, perché ho molta fiducia nelle persone che ho attorno) per capire come cavarmela, talvolta anche al suono di “in qualche modo, me la cavo”. In quel “in quale modo me la cavo” fanno capolino le insicurezze: “Non sono capace, oh mio dio perché mai ho accettato di fare questa cosa? Ora tutti si renderanno conto di quale incapace io sia…”. E devo sempre ringraziare il fatto che le insicurezze rappresentino uno zaino che è parte integrante della mia esistenza, perché lì mi parte tutta una sorta di energia che mi spinge a studiare, ad approfondire, a chiedere confronti e supervisioni. Ancora oggi - e faccio questo mestiere da 11 anni- va così; per questo, ho i miei supervisori di fiducia, ho una rete di colleghi a cui mi affido, mi pongo una caterva di dubbi e riservo denaro e molto molto tempo allo studio. Leggo e studio più di quando ero all’università.
Credo stia qui il punto: far sì che quel non sentirsi capaci e quelle insicurezze non diventino un motivo per non iniziare, ma una molla per approfondire, studiare e fare esperienza. Per migliorarsi, insomma.
Occhio, però, facciamo subito una specifica: ci tengo che il discorso non passi come quello di certi pseudo-guru: “I fallimenti diventano la mia forza” e roba del genere. Ma va! Io ogni volta ci sto malissimo (oggi un po’ meno, quando ho iniziato ho passato periodi di lacrime e disperazione) e ho ben presente quell’ansia che ti si aggrappa allo stomaco dinanzi a ogni pensiero di incapacità e di non essere all’altezza. Mi capita ancora di rigirarmi nel letto, pensando: “Ma che diavolo sto facendo? Ma perché ho accettato ‘sta cosa?”. Quindi, ecco, non significa che le insicurezze facciano stare bene o che dobbiamo tenercele così come sono, quasi fossero scolpite nella pietra.
L’augurio è, però, quello di poterci lavorare su, affinché da un lato quelle insicurezze non passino mai del tutto (piuttosto, si trasformino in dubbi) e dall’altro che la matassa più grossa si faccia da parte (e se si fa un buon lavoro accade, perché l’esperienza cementa fiducia e sicurezze…ma l’esperienza bisogna pur farla, bisogna cominciare!😉🙃).
L’augurio, insomma, è di usare quelle insicurezze, già che son lì. E, appunto, trasformarle in dubbi e riflessioni.
Tienile strette, guarda a fondo quelle paure (cosa temo di non saper fare? Cosa sento che mi manca? Dove potrei approfondirlo? Ho un supervisore che può aiutarmi a mettere insieme i miei errori affinché divengano esperienza?) e mettile anche un po’ alla prova. Cosa significa metterle alla prova? È solo quando ti trovi davanti un paziente che puoi capire quali cose già sai (per esempio, si parte sempre con il “so di non sapere”, ossia si parte sempre dalla raccolta della storia della persona, perché i pazienti sono i veri esperti e noi siamo umili traduttori di dinamiche) e quali invece producono uno scricchiolio e richiedono un approfondimento e una supervisione.
Fin qui, suona tutto un po’ come un consiglio, me ne rendo conto. Chiudo, quindi, questa mia risposta con qualche sassolino, ossia con qualche domanda che aiuti a riflettere e a capire come mai -al netto delle naturali paure che questa fase di passaggio comporta- le insicurezze generino IN TE un “blocco” nel cominciare.
È la nostra storia che ci insegna cosa farcene delle nostre insicurezze e come comportarci nel momento in cui non siamo (o non ci sentiamo) sufficientemente pronti. E allora proviamo a dare uno sguardo lì:
Come andava in famiglia quando qualcuno si mostrava poco capace o poco performante? Cosa si diceva e che sguardi si ricevevano? (occhio che parole e sguardi non sempre combaciano).
Quali strade sono state percorse prima di te? (Posto sicuro e indeterminato, libere professioni, tentativi e rischi…) E come venivano narrati/ricordati?
E poi diamo uno sguardo al futuro, che tener conto dei tre piani temporali (passato-presente-futuro) è sempre utile:
Se dovessi svegliarti domani mattina e dovessi sentirti pronta, cosa sentiresti di diverso? Cosa sarebbe cambiato? Come saresti?
Com’è nel tuo immaginario uno che è pronto? Cosa fa e cosa non fa? Cosa gli capita e cosa non gli capita?
In che momento della vita ti immagini di sentirti così e quali esperienze pensi ti permetteranno di sentirti pronta?
In bocca al lupo per tutto!
E te, caro lettore/cara lettrice di questa newsletter, come te la cavi con le novità? Sei più uno che si butta o di quelli che tergiversano all’infinito? Quali dubbi e insicurezze porti nello zaino? In quale parte della tua storia e con quale narrazione si sono infilate lì dentro?
Come sempre, se ti va di condividere le tue riflessioni sono qui! =)
LE ULTIME PUNTATE DEL PODCAST "TV THERAPY"
Quello dove…sono ipocondriaco, perché guardo le serie medical?
Quello dove…The Haunting of Hill House ci parla di schizofrenia
Quello dove…Sex Education ci mostra come (non) si fa inclusione
Quello dove…rispondiamo alle vostre domande su Disney
E per questo mese è tutto, ci rivediamo il 13 dicembre con una nuova newsletter che non stressa (si spera!) e, se vi va, il 18 novembre a Milano.
Questa storia mi fa venire in mente un episodio di una ventina di anni fa: avevo appena fatto il (blando e inutile) corso di primo soccorso per obiettori di coscienza per operare in croce rossa, e parlavo con un veterano mentre andavamo a prendere un malato per portarlo a fare alcune visite; io stavo parlando del massaggio cardiaco: "certo che deve essere un casino, con questa cosa del massaggio: se schiacci poco il massaggio non serve a niente, se schiacci troppo puoi rompergli il pericardio e quel cuore non batterà mai più.." e il veterano, con tutta la calma di questo mondo, mi rispose "bah! tanto il massaggio cardiaco lo fai su uno che tecnicamente è già morto, non è che puoi peggiorare di molto la situazione... la differenza la fai che ci hai provato, almeno". Mi capita spesso, in alcune situazioni limite, di ripetermi in testa "tanto il paziente è già morto, peggio non posso fare".